Vite di strada
- Verena Ottaviano
- 7 dic 2022
- Tempo di lettura: 3 min
Questo racconto, divenuto poi un monologo teatrale, nasce dal bisogno di condividere - mediante gli strumenti educativi della scrittura e del teatro - l'intensità emotiva che gli incontri in strada portano con sé.
Sono Dimitri. Aragi. Dimitri Aragi. Ricordalo bene questo. Il mio nome è tutto quello che ho, per non essere solo uno dei tanti. Che poi, come si fa a scambiarmi per, ad esempio, Abbas, il tipo della stazione? Non parlo mica con i morti io, povero Cristo! Oppure con Osvaldo, l’ambulante? Troppo sfacciato. In senso buono, s’intende. O sono per caso come Andreji, il polacco? Lui sì che conosce il mestiere di vivere, vecchia volpe! E il rumeno dopo la grande discarica, Raul? Quante azzuffate con lui! Forse perché, sì, un po’ ci somigliamo. Siamo teste dure noi. Comunque sia, io sono Dimitri. E credimi, credimi, nessun Dimitri è come me. Vedi amico, devo ripetermelo ogni giorno, ogni - fottutissimo - giorno, altrimenti finisco per dimenticarmelo. Perché a loro non importa, per loro siamo tutti uguali, e così spetta a me, ricordarmelo, se non voglio cominciare a credere anch’io di essere un ammasso di roba inutile, l’invisibile, il senzaDio, quel morto di fame che viene da chissà dove per fare chissà cosa. Senza una casa, senza una dimora, solo, con questi quattro stracci lerci. Ma io una casa ce l’avevo. Un tempo, è chiaro. Perché adesso sono stato sbattuto qui, sull’altra sponda di questo cazzo di fiume, infradiciato e puzzolente, come un qualunque topo di fogna. Esiliato, relegato ai confini. Un perfetto scarto sociale. Quegli stronzi mi hanno detto che giù al ponte non potevo più stare. “Troppo in vista”, si è giustificato il tizio. “I cittadini lo trovano de-qua-li-fi-can-te”, ha continuato l’altro infame. Dequalificante cosa sta a significare? Che è degradante per la città? E io che pensavo che vivere come bestie non fosse degno degli essere umani! Che stupido, è dell’ordine urbano che si preoccupano. Ah, se mettessero da parte tutte queste convenzioni sociali, queste regole di buona condotta che non servono a un cazzo! Basterebbe fermarsi, una buona volta, guardarsi allo specchio. Ma è proprio quello che temono, amico: sentirsi costretti a gettare la maschera. Ritrovarsi nudi, faccia a faccia con loro stessi. Troppo difficile, eh, amico? Così, per evitargli una simile seccatura, ho fatto le valigie e ho tolto ancora una volta il disturbo. Ciao. Mi trasferisco di nuovo. È la quarta volta in un anno. Dimmi tu se non mi fanno impazzire! Comunque qui sto bene, forse perché è un posto scordato dagli uomini, e allora non ho problemi. Vedi, finché ci sono i ratti e la puzza di piscio, è tutto ok, perché li tiene lontano. Tiene lontano tutti quelli che vorrebbero che io non esistessi. E invece io ci sono, sono vivo, cazzo, lo sento in ogni respiro, in ogni palpitazione, in ogni muscolo, in ogni nervo teso, in ogni parola che freme per uscire. Diavolo, vorrei gridarlo fino a strapparmi le corde vocali: “Anche se non ci vedete, quelli come me esistono”. Che poi io, amico, non ho alcuna intenzione di togliere il disturbo, intendo dire di farla finita, zac! Lo so, basterebbe poco. Un niente. Sarebbe sufficiente ingerire una di quelle robe che trovi facilmente al bordo del marciapiede laggiù, sì, lì, sulla strada dei nigeriani. Ma non sono quel tipo lì, io. Forse è per quello che do fastidio. Perché mi aggrappo alla vita con tutta la mia forza, anzi, con tutta la mia miseria, ma mai con disperazione. Non sono disperato. Te l’ho detto, non mi levo di mezzo. E già che ci siamo ti faccio vedere anche come mi sono sistemato per bene. Ci tengo al mio posticino io, magari questa volta riesco a mantenermelo per più di qualche mese. Ecco, qui lo chiamano “il buco”. Vedi, è così stretto, ma abbastanza lungo, giusto a contenere la mia sagoma. Ed è proprio quello che cercavo. Perché sai, io non pretendo molto, chiedo solo di potermi sdraiare in pace. Anche se è cemento. Anche se il silenzio di tanta solitudine a volte è assordante. Desidero solo un posto che sia mio, per diritto, perché mi spetta, perché è giusto. Forse poco decoroso per l’ordine pubblico. Ma giusto. Io non chiedo carità, amico. Solo giustizia.
Giustizia.
Giustizia.
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