Esistenze, resistenze
- Verena Ottaviano
- 3 mar 2021
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 7 dic 2022
“Non possiamo nasconderci a noi stessi”, scriveva un mio professore. Ed è vero, perché nella professione educativa il primo e più importante lavoro è quello su di sé: è necessario conoscersi, scrutarsi a fondo, scavare nei meandri dell’animo, affrontare la propria “odissea interiore”, riconciliarsi con la personale biografia, perché solo chi sostiene sé e gli altri a prendersi cura della propria esistenza, cominciando da questo primo momento di riconciliazione con il proprio io, aiuta effettivamente sé e gli altri a superare sfiducia e autodisprezzo, sentimenti molto spesso presenti quando ci cogliamo fragili. L'esercizio più difficile nella vita di un educatore è proprio il doversi mettere in relazione con se stessi, in un atteggiamento di ascolto remissivo, che sappia accogliere le proprie tare senza giudizio e autocondanna. In altri mestieri puoi pure farne a meno, ma qui no: la persona che ti trovi di fronte ti fa sbattere i denti contro realtà che scuotono, stimolano, grattano sui nervi scoperti. Per questo diventa inevitabile lavorare su di noi, trovare quel modo unico di prenderci cura del nostro mondo e di proteggerlo, senza lasciarlo intaccare, contaminare da quel dolore che troppo spesso ci portiamo a casa dopo una giornata faticosa, che ha fatto vacillare il nostro equilibrio emotivo. Se non ci salvaguardiamo, se non medichiamo con amorevole cura le nostre ferite, quelle dell'altro rischieranno di insinuarsi nelle nostre, dando origine ad una piaga che sarà difficile da cicatrizzare.
L’educatore si fa garante dei vuoti delle persone di cui si prende cura, il che implica soprattutto la capacità di saperli rispettare ed accertarsi che sia il momento giusto per avvicinarsi a questi solchi, in punta di piedi. È possibile, ad esempio, che il ragazzo non sia pronto per fare i conti con la sua storia, non abbia le forze di cambiare perché resta fermo nel suo autogiudizio negativo e questo diventa la sua condanna: la persona potrebbe barricarsi dietro la sua impotenza e la sua impotenza, allora, diventerebbe la nostra impotenza. A questo punto è necessario fermarsi e rispettare la scelta dell’altro, seppur questo faccia soffrire e provochi frustrazione. perché ci riporta alla nostra condizione umana ed ai nostri personali sentimenti di fronte ad un'esperienza drammatica come può essere quella del fallimento. È doveroso ricordarsi che con la persona, in ambito educativo, ci sarà sempre un margine di probabilità incognita, un’onda anomala, ossia quella variabile che non può essere prevista. Non sapremo mai con certezza cosa accade in una testa, in un cuore umano, perché ci sono traumi, sofferenze che possono diventare intollerabili e impedire all’uomo di prendere in mano la propria vita e ribaltarne le sorti. Ho scoperto che è fondamentale allora arrestarsi, fare un passo indietro, capire che l’altro non è un recipiente che deve essere riempito, ma una conca che può ricevere, solo quando ne avvertirà l'esigenza profonda. Nel frattempo, nell’attesa, l’educatore tenterà, con le tecniche più disparate, di innescare il desiderio, accendere una scintilla, appassionare. Si potrà dire, forse, di avercela fatta solo quando si sarà riusciti a trasformare la passività dell’amato nell’attività dell’amante.
Non è forse questo il lavoro più complesso e meraviglioso di sempre?
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