Terra rossa
- Verena Ottaviano
- 30 apr 2024
- Tempo di lettura: 5 min

'Terra rossa' è un breve racconto nato da un esercizio di scrittura. Si tratta di un'esercitazione avente la finalità di focalizzarsi sugli obiettivi da voler raggiungere da qui ad un determinato periodo, che potrà essere di 5, 10, 15 anni a seconda delle esigenze di chi svilupperà il testo.
Guardati in avanti di dieci anni. Cosa vedi?
Descriviti con delle immagini. Visualizzati nel tempo e nello spazio e raccontati partendo da visioni concrete.
Continuo ad avere fissa l’immagine di me, mentre esco da una casa dove vive tanta gente. Soprattutto bambini. Molte donne. Fuori c’è un infinito spazio. Sono scalza, la terra è rossa. Tutti siamo attraversati da un tempo lento. Abbiamo le nostre abitudini, i nostri rituali. Siamo stretti attorno ad una comunità. È mattino presto, ma il sole è sorto ed è tutto ciò che serve per avviarci alle attività della giornata.
Intanto fuori i pupi già svegli giocano, si rincorrono, stuzzicano le capre; qualcuno più audace decide di scalare un albero, perché dalla vetta si vede meglio il Kilimangiaro. E questo i grandi lo sanno bene, anche se non dovrebbero dirlo, perché i piccini in loro custodia hanno il divieto di arrampicarsi. Ma faticano a mantenere il segreto: lo scenario è sorprendente da lassù.
Un bacio a mio marito ed ai piccoli che ancora dormono. Dopo il caffè - usanza a cui non sono riuscita a rinunciare - vado incontro alle mie compagne e, sedute in cerchio, riprendiamo il nostro usuale appuntamento con lo “Spazio Sacro al Femminile‟: un momento, una formazione, una parentesi giornaliera di vita in cui ci confrontiamo, lavoriamo, impariamo, insegniamo, evolviamo, ci prendiamo cura. Sia chiaro, non si tratta di un intervallo filosofico dove si conversa e si analizza. O meglio, non è soltanto questo. È dinamismo, movimento, azione; è tessere relazioni di senso che contrastano l’individualismo, l’egoismo, la violenza, l’oppressione. Tutto può rientrare nello Spazio Sacro, purché rispecchi tre criteri: anzitutto è necessario che sia vero, nel senso più puro del termine; secondo deve esser cosa buona, ossia apportare giovamento e, infine, occorre che possieda una qualche utilità. Ad esempio io, nel mio spazio sacro, oltre a pregare, scrivere, condurre il laboratorio di teatro, andare per campi, mungere, abbracciare le sorelle, mi cimento nella creazione di gioielli per capelli, attività assolutamente fondamentale per il mio nutrimento spirituale. Mio marito dice che sono più luminosa da quando dedico qualche ora alla settimana ad intrecciare fili e pietre. Credo abbia ragione, sai? In fondo, qualunque cosa facciamo con passione finisce per purificare la nostra anima. E trovo che la mia si stia pian piano levigando dacché ho smesso di rincorrere il tempo alla maniera occidentale.
Il mio momento di impegno nel disimpegno - ossia il tempo in cui, nel sano ozio, lascio fluire il pensiero tracciandolo su carta - è giunto al termine. Sono le nove e tutta la nostra comunità si reca a scuola, naturalmente nel villaggio. Dopo anni dedicati all’educazione e all’infanzia, ho scelto di consacrarmi alla formazione dell’adulto, che è stata la mia aspirazione sin dai tempi dell’università. Le parole di Freire [1] mi guidano in questo percorso, che è più di un semplice lavoro: è un ideale, un sogno, un Credo profondo; è il mio modo di ringraziare Dio e la Madre Terra per il vantaggio che ho ricevuto nell’esser nata nella porzione privilegiata di mondo. Ma come possiamo noi, cercatori disperati in lotta per la speranza, rimediare a questa falla del sistema? Io credo di aver trovato un modo per avvicinarmi quanto più possibile al concetto di giustizia sociale: restituendo la parola a chi parole per troppo tempo non ne ha avute. Avere accesso alla lettura e alla scrittura non significa solo istruirsi, piuttosto ritengo sia lo strumento di cui ciascun uomo può servirsi per divenire protagonista consapevole del proprio tempo e della propria storia.
Il lavoro mi porta ad essere sballottolata in ogni lembo di queste terre, eppure i chilometri macinati nell’arco della giornata sono un toccasana per me: posso respirare a pieni polmoni; abbracciare la polvere rossa che si innalza maestosa su di me, s’insinua fra la pelle e si impasta nei capelli; lasciarmi coccolare dal vento, ma anche scuotere, investire, scaraventare; o sentirmi inerme dinnanzi all’imponenza del sole rovente. Tutto questo mi fa sentire ogni giorno miracolosamente viva, naturalmente mortale. È forse per tale ragione che ho scelto di girare a domicilio nelle case, dove solitamente tendono a riunirsi più persone.
Arrivare da Palito che abita al di là del torrente comporta un impegno non indifferente, soprattutto nei periodi di piena, quando la natura impetuosa si riversa nelle campagne strappando i raccolti e, con essi, l’unica possibilità di sostentamento per tre quarti della popolazione keniota. Ma, se è vero che “non di solo pane vive l’uomo”, è da considerarsi quantomeno meschino privarlo persino del nutrimento delle parole e della possibilità di plasmare il mondo attraverso di esse, dal momento in cui questa è la sola chiave per agire il cambiamento, per “resistere ed esistere”, come dice il mio saggio amico, che con affetto chiamo ‘Palù’.
Io credo fermamente che l’alfabetizzazione nell’adulto produca coscientizzazione [2] e che essa sia azione politica, per cui dovrebbe essere responsabilità morale di chiunque sia stato messo dalla Vita in condizione di poter apprendere, conoscere, attraversare la parola e farla propria, tentare l’impossibile per raggiungere l’abitazione di Palito. Pertanto, semmai nessuno dovesse sentirsi interpellato da tale urgenza, io dichiaro, ora, in questa sede, che cercherò sempre di mantener fede alla promessa fatta, anche in presenza di pareri avversi. Consideriamola una sorta di disobbedienza civile, una forma di pacifica resistenza.
Ad ogni modo, qualunque siano le motivazioni che mi spingono ad allontanarmi da casa e nonostante il mio lavoro mi infervori e mi appassioni, ogni sera il cielo - senza alcuna riserva - inizia a proiettare i suoi magnifici colori ed il sole si appresta al suo regale saluto, come ad invitarmi solertemente ad incamminarmi verso la strada del ritorno. È questo il momento che restituisce il senso alle mie giornate: quando finalmente si chiudono le finestre sul mondo e sono tra le braccia calorose delle persone che amo. Puntuale come il tramonto, mio marito mi aspetta sempre lì, in quel piccolo angolo di stanza, nella sua posizione abituale, con il solito fiore del flame tree in mano, come se fosse uno scacciapensieri, un amuleto, un dono quotidiano. Abbiamo una mezz’ora prima che tutti, giovani e meno giovani, rientrino. E di nuovo la Vita riparte, assume contorni delineati, specifici. Ed il Sacro ci avvolge.
[1] Paulo Freire (1921-1997) è stato un educatore e pedagogista brasiliano.
Nella sua vita professionale ed umana, Freire si è occupato di educazione degli adulti e dei lavoratori, dell’alfabetizzazione nel Sud del mondo, nonché della formazione degli insegnanti e degli educatori, fino a toccare le tematiche dell’educazione interculturale dentro e fuori la scuola, della globalizzazione e del pensiero ecologico.
[2] Tale espressione è stata utilizzata dal pedagogista Paulo Freire per indicare il processo di liberazione e di umanizzazione che - mediante un percorso partecipativo e di consapevolezza sociale - permette, a chi è oppresso, di vedere con oggettività la propria realtà, comprenderne le cause ed intraprendere un percorso di emancipazione e, a chi si riconosce come oppressore, di individuare le ragioni che a loro volta lo opprimono nell’esercizio di un ruolo disumano e disumanizzante.
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